martedì 15 aprile 2014

Texas Is The Reason - i birrifici


Fredericksburg Brewing Co 
Senz'altro non la meta prediletta del beer geek, né tantomeno il ritrovo abituale di turisti e vacanzieri europei (tant'è che tutti ci hanno chiesto cosa ci facessimo lì), ma in Texas noi ci siamo trovati davvero bene: cucina BBQ autentica, macchine giganti, cucina messicana ovunque, armi alla portata di tutti (!!!) e un'offerta birraria che stupisce nella sua semplicità.
Cominciamo col dire che gli stili europei a noi tanto cari sono piuttosto comuni e, se ci mettiamo che a metà del 1800 c'è stata una forte immigrazione tedesca, lo stupore per la massiccia presenza di Helles, Pils, Weizen e Bock un po' si ridimensiona.
Fredricksburg Brewing Co. (situato, beh indovinate voi...) è il brewpub più vecchio dello stato con ormai 20 anni di attività si trova sull'Haupt strasse, nella cittadina più votata a Federico di Prussia e alla pils. Trovato per caso sulla strada per Enchanted Rock, propone, oltre ad un'ottima cucina bavarese, una varia selezione di lager ed ales, ottima la Pioneer Porter e la Not So Dumb Blond Ale (Koelsch) e una keller, la Helles Keller che vorremmo fosse servita nei secchi per tanto che va giù.
Il birrificio ha una dimensione modesta, più vicina agli standard italiani che a quelli statunitensi e non imbottiglia, né vende al di fuori della sede.
I fermentatori di Real Ale a Blanco

Chi invece è ovunque - e meno male - è Real Ale Brewing Co, micro (micro?) di Blanco, cittadina poco distante da San Antonio. Se le dimensioni contano, a volte, si è predisposti pensare ad un calo di attenzione nel processo produttivo, anche se non è questo il caso: si lavora sei giorni su sette, 24 ore al giorno per mettere nei tank 48.000 l al giorno delle loro birre year-round. La struttura produttiva fortemente automatizzata, soprattutto nel lato imbottigliamento/inlattinamento/inscatolamento, permette di mantenere una varietà di birra elevata: Hans' Pils, Firemans #4, 4 Square, Full Moon Rye Pale, Brewhouse Brown Ale, Hefeweizen le birre base. Poi c'è spazio per prodotti stagionali, barrel aged o collaboration: impossibile non citare la BLAKKR fatta con 3 Floyds e Surly e la Scots Gone Wild, versione bretta della loro scottish ale, sour e alcolica.
Chi se la spassa con bretta, fermentazioni spontanee e barrique vari è Jester King ad Austin: si definisce farmhouse per la location e per quell'inclinazione a fare le cose seguendo il corso della natura. Puntano alla maturazione e affinamento in botte e, anche quelle birre che finiscono la maturazione in acciaio, sono blendate con i prodotti passati in quercia (per lo più di aziende vinicole locali).
Una propensione questa che, se pur trova uno zoccolo duro nel grande mercato americano, resta una scelta
Ron Extract, cicerone e socio di Jester King
impopolare: è vero che gli americani bevono tanta craft beer, ma è anche vero che in pochi hanno le competenze tecniche per giudicare prodotti poco noti. Suicidio commerciale come direbbe Ron Extract (socio dell'azienda)? Nì, direi io. Jester King si pone come azienda, per certi versi, più interessata al mercato europeo che a quello americano, vitale e ampio qui in Texas, ma non in grado di assorbire l'intera produzione come invece avviene per gli altri birrifici visitati.
Ne è l'esempio che qualche loro bottiglia è passata nei canali distributivi italiani, quindi ci concentriamo sui prodotti non ancora assaggiati: una menzione speciale per la Boxer's Revenge, birra big, aspra, alcolica e complessa, mentre rimaniamo un po' delusi dalle varie saison a bassa gradazione blendate con le maturate in botte.
Anche in questo caso è impossibile passare tutta la gamma vista la vastità dell'offerta, ci portiamo in valigia qualcosa da dimenticare in cantina per un annetto o forse più.





mercoledì 8 gennaio 2014

Norsk Øl

Avevo fatto male i miei calcoli, al momento della prenotazione del mio volo a Bergen, Norvegia. Niente bianca e cara neve e ghiaccio a rendere più "romantico" il nostro soggiorno nella cittadina sul Mare del Nord, ma solo pioggia e grigiore, perchè qui piove 300 giorni all'anno - mi  dicono - e per via della corrente del golfo le temperature sono piuttosto miti e la neve è una rarità.
Poco male, perchè la mancanza quasi totale di luce e la scarsità di ripari dalla pioggia, ci hanno permesso di indugiare dentro ai pub con più calma e serenità.
Inutile girarci intorno! Henrik Øl og Vinstove è senz'ombra di dubbio la migliore offerta di Bergen: zero musica, zero cibo, zero fronzoli, ma tante birre alla spina. Il gestore Johnny mi dice che probabilmente è il pub europeo con più "vie" (54!!!) ma che non ne è sicuro al 100% e io non mi sento di entrare in merito alla discussione. La sua passione per il suo lavoro è encomiabile: Johhny si approvvigiona direttamente dai produttori ed è spesso in Belgio, Danimarca e Svezia per comprare fusti. Come se non bastasse produce, grazie alla complicità di amici homebrewer e birrai, alcune birre sotto il marchio ABC. Tra i suoi bestsellers
compaiono le birre della Lervig, ottime birre, super bevibili, toccanti, ma senza essere troppo sopra le righe: Lucky Jack pale ale C-A-P-O-L-A-V-O-R-O. Ottime anche Konrad's Stout e Betty Brown.
Ridiamo una ripassata alle ales di Nogne Ø, da troppo tempo senza importatore in Italia; nonostante l'acquisizione del marchio da parte di un produttore industriale norvegese, direi che la qualità è fortunatamente rimasta immutata. Speriamo rimanga così...
La totale assenza di cibo ci spinge verso nuovi lidi e, a pochi, passi dall'Henrik Øl si trova il Pingvinen, locale più tradizionale con birra, vino e superalcolici e cucina casereccia norvegese, che, purtroppo, non ha molto da offrire al nostro palato. Tuttavia, l'offerta birraria resta comunque valida, con solide produzioni Norvegesi, tra cui Ægir, Haandbryggeriet e il già citato Nogne Ø. Mi butto sulla God Jul di quest'ultimo mentre mangio polpettone di carne. Non male...
La mattina ha l'oro in bocca, si sa, e con la scusa di comprare un paio di vinili metal norvegesi, mi dirigo da Apollon. Gli manca solo un po' più di estremismo per essere la rappresentazione terrena del paradiso: sulla destra scaffali e scaffali di vinili di ogni genere musicale e sulla sinistra una ventina di birre alla spina. Buona selezione di artigianali scandinave, un po' troppe le birre comuni (Stella, Guinness e Kilkenny..). Ma volete mettere scorrere i vinili con in mano una pinta del neonato birrificio di Bergen 7 Fjell? Nonstante siano le 10 della mattina mi faccio convincere a provare anche la Vestkyst di Kinn: esco un po' ciondolante ma con: "Ass Cobra" dei Turbonegro e "De Mysteriis Dom Sathanas" dei Mayhem in vinile. Missione compiuta!
Nonostante la città non sia grandissima, l'offerta è più che decente e così, ci dirigiamo allo schizofrenico Naboen: ristorante con gente incravattata al piano terra, gastropub nell'interrato. Non si mangia male e la varietà di birra in bottiglia fa ben sperare, purtroppo la Naboen Bitter prodotta da Kinn e la Naboen Bayer prodotta da Aass versano in pessimo stato (oltre il limite dell'umanamente ossidato la prima e metallica la seconda). Mi rifugio nella Rye IPA di Lervig in bottiglia e ci metto una pietra su.
L'ultima cartuccia prima della nanna la sparo da Kontoret, pub all'inglese, un po' deludente nella selezione di birra alla spina, ma rassicurante sugli import in bottiglia. Tuttavia di norvegese c'è soltanto la IPA di Ægir e così sia, stavolta faccio davvero fatica ad arrivare in fondo al bicchiere, vuoi perchè sono un po' gonfio dalla cena, oppure sarà che la India Pale Ale non stupisce affatto, nonostante rimanga una degna chiusura della serata.



P.s. neanche a farlo apposta, al mio rientro dietro il bancone, vengono a farmi visita il commerciale e una dei birrai di Ægir. Il destino!!!

sabato 16 novembre 2013

Dave Witte

Ogni tanto mi ricordo di avere anche un blog.


Parafrasando “Fusi di Testa”: Io? Qui a parlare con Dave Witte di birra e musica? Non sono degno, non sono degno. Ma tant'è, perché è successo davvero. Lui, uno tra i più veloci batteristi del pianeta (ve lo ricordate con i Burnt By The Sun?), quando non è impegnato dietro a pelli e cimbali si dedica a tempo pieno al turismo brassicolo e gastronomico; anzi è un vero true lover delle piccole produzioni e conosce pure qualche birra italiana...

- I metallari sono spesso associati a birra da supermercato e cibo spazzatura, tu sei un bevitore di birra artigianale e un amante della buona cucina. Come ci sei arrivato?

D.W. Il mio passaggio alla buona birra è stato senz'altro Bill degli Exit 13. Mi ha fatto entrare nel mondo delle "belghe" e poi è cresciuto tutto a valanga da lì. Pensavo che tutta la birra fosse cattiva e non la bevevo. Stille Nacht (di De Dolle nda) è stata la birra che mi ha cambiato, non mi dimenticherò mai di quanto era buona! Mentre per il cibo, viene per lo più dai miei viaggi.

- Anche gli altri membri delle tue bands condividono queste tue passioni?

D.W. Tutti amano cibo e birra, ma su piani differenti. Sono l'unico che si cerca attivamente i posti da visitare mentre siamo in tour. Appena mi comunicano le date, immediatamente mi informo tramite amici e siti web su cibo e birra, e faccio una lista dei posti da visitare.

- La scena southern metal sembra essere il cuore pulsante della musica estrema, ma per la birra... Sta crescendo la scena birraria? Io non conosco molto se non Cigar City Brewing.

D.W. Cigar City è davvero fantastico, fanno delle grandi birre. Tuttavia non riesco a pensare ad un esplosione di birrifici artigianali al sud. La Carolina del nord si sta facendo conoscere con Duck Rabbit, Foot Hills, Olde Hickory e pochi altri, ottime birre! Anche dove vivo c'è un nuovo birrificio che sta facendo delle grandi cose, chiamato Hardywood Park. Vai a vedere il loro sito.

- Qual'è la tua birra preferita, la tua band preferita e l'accoppiata birra/musica preferita?

D.W. La mia birra preferita è Peche Mortel di Ciel Du Ciel. Lo so che ci sono tanti stili e birre di cui parlare, ma è la mia preferita. Le mie bands preferite sono i Rush e gli AC/DC... quindi il Canada è in cima alla mia classifica (ride). Ascoltare "Bitches' Brew" bevendone una (prodotta da Dogfish Head nda) è stato fantastico.

- Com'è stato suonare al quindicesimo anniversario di 3Floyds? Come hanno reagito i beergeeks di fronte a tanta potenza (suonavano anche Melvins e Black Cobra)?

D.W. E' stata una delle volte in cui mi sono divertito di più. I 3Floyds sono persone incredibili che fanno birre incredibili. Ci hanno trattato benissimo, sono rimasto colpito. Tutte le band sono state grandi e anche i birrai ospiti (Mikkeller, De Struise e Surly) sono stati straordinari. I beergeeks si sono attizzati per le band così come i birrai... è stato bellissimo. La mia nuova band, gli Argonauts, suoneranno al loro Dark Lord Day quest'anno. Non vedo l'ora!

- Raccontaci un po' del tatuaggio col logo di 3Floyds che ti sei fatto...

D.W. Dovevo farlo, adoro la gente e la birra di 3Floyds. Era anche il soggetto giusto per il mio ginocchio, ci sta proprio bene!

- Hai mai assaggiato qualche artigianale italiana?

D.W. Sì, la Verdi Imperial Stout è una delle mie preferite del Birrificio del Ducato e prima dell'espansione della birra artigianale in Italia, mi piaceva davvero la Moretti Rossa. La Super di Baladin è una birra eccezionale.

- Raccontaci un po' dei tuoi progetti musicali, so che sei ben occupato con la nuova uscita dei Municipale Waste...
D.W. Yeah! Il nuovo Municipal Waste uscirà il 10 aprile negli U.S.A. per Nuclear Blast ed è venuto veramente bene. Non vedo l'ora che la gente possa ascoltarlo. E ci faremo un  bel culo per il tour del disco. Il mio progetto più recente si chiama Argonauts e suoneremo qualche concerto e registreremo qualche pezzo a breve, teneteci d'occhio.

- Passerete dall'Italia? Potremmo uscire a farci un paio di pinte (rido).
D.W. Speriamo quest'estate! Non ho ancora guardato le date, ma non vedo l'ora di venire lì e cominciare a suonare e a bere (ride).

Pubblicato originariamente su Salad Days Issue XI 

venerdì 31 maggio 2013

Size does matter (NYC part II)

E' innegabile. In America tutto è grande: la auto sono grandi, i grattacieli sono altissimi, i pub hanno 40 spine, i fermentatori dei birrifici sono alti come palazzi... O per lo meno lo sono quelli di Captain Lawrence, piccolo (argh!!!) birrificio 40 km a nord di New York, a Elmsford, paesino disperso nelle campagne lontane dalla metropoli.
Il birrificio aveva attirato la mia attenzione grazie alla sua produzione, sia di birre iperluppolate, che di sour ales: i classici due piccioni con una fava.
E così dopo un lauto banchetto all'Oyster Bar del Grand Central Terminal, tappa fondamentale per chiunque sia un amante dei frutti del mare, saliamo sul treno che costeggia l'Hudson River fino a Tarrystown.
Arriviamo ad un complesso industriale nel mezzo del nulla in cui svetta un enorme silo per i cereali, ci addentriamo nell'ampia tasting room dove ci attende Aaron, manager dell'area accoglienza del birrificio. La sala cottura è grossa, ma non gigante, quello che lascia a bocca aperta è la "cantina": l'impianto da 30-35 Hl (mi perdonerete se non sono una cima con le conversioni) lavora non stop per 4 cotte al giorno per mettere nei fermentatori dai 12.000 ai 15.000 litri di birra ogni giorno. Questo immane sforzo - penserete voi - va a beneficio di una nazione molto estesa, mentre la realtà impone che le birre di Captain Lawrence siano reperibili solo nello stato di New York, con due eccezioni: Philadelphia e Boston. Si produce di tutto: dalla Koelsch, alle ben note IPA e Double IPA, passando per prodotti particolari, come la Weizen Bock e la Berliner Weisse a beneficio dei soli avventori della tap room. Incredibile, la capacità del birraio italo-americano Scott Vaccaro di produrre anche delle ottime sour ales come la già citata Berliner Weisse e la Hops n' Roses, passata in botte con rosa e ibisco.
Se le birre di Captain Lawrence si trovano sì e no in un pub su tre nella grande mela, in ogni dove ho trovato gli ottimi prodotti di Sixpoint, piccola gemma nel decadente borough di Red Hook, sud di Brooklyn. Nonostante il quartiere sia desolatamente noto per essere la capitale americana del crack, il quartiere si distingue nell'ospitare il secondo birrificio newyorkese più venduto (dopo Brooklyn). L'ambiente è piccolo e accogliente al suo interno, un impianto di dimensioni decisamente "italiane" trova spazio in una piccola costruzione in mattoni. Questa è la facility secondaria, dove vengono prodotte le birre one-shot, le stagionali e le speciali.
La gamma base viene prodotta e inlattinata 120 km più a nord in Pennsylvania per far fronte all'enorme richiesta di birra in NYC.
Nonostante la sala di cottura di Red Hook sia stata devastata dall'uragano Sandy a settembre, l'inossidabile spirito americano ha fatto sì che si tornasse velocemente in affari con una produzione sterminata di birre ad hoc.
Il Citra resta ancora il luppolo più di moda anche oltreoceano: grandiosa la serie Spice Of Life monoluppolata e la Oyster stout disponibile in pochissimi posti scelti. La serie di produzione base trova i suoi highlights nella Double IPA Resin, più west che eastcoast e nella Bittersweet, una cream ale davvero easy to drink ma coraggiosa.



lunedì 27 maggio 2013

La NYC che beve bene

Andare nella capitale del mondo occidentale per la seconda volta è un po' come camminare dopo essersi tolto i sassolini dalle scarpe: niente più code infinite per le attrazioni turistiche, basta sentir parlare italiano manco fossimo in piazza Duomo; solo il piacere di andare a zonzo per le strade, fermarsi dove si vuole, conoscere la città come se fossi (quasi) un residente. Inutile dire che il vero Beer Geek schifa la grande mela, lontana dalle IPA di San Diego e dalla West Coast in generale e, a volte, più vicina al nostro gusto europeo. Non è un caso se il mio amico Aaron decide di portarmi da Proletariat nell'East Village per un aperitivo (tutt'altro che) veloce: 6 spine su 10 sono occupate da birre europee, tra cui anche la nostra Perle Ai Porci. Schivo l'offerta esotica e mi concentro sulle quattro autoctone, rimanendo un po' deluso dalla scarsità della scelta. Allagash Blond mi riconcilia subito con me stesso.
Dopo aver specificato meglio la mia voglia di bere "americano", finalmente cominciamo a far quadrare i conti e ci dirigiamo sul lato ovest di Manhattan per qualche birra da Blind Tiger, locale già noto ai più, roccaforte della birra artigianale in città. Tante spine e anche un paio di casks per non farsi mancare niente, location bella, molto caotica. Ho solo una cartuccia da sparare e manco il bersaglio:  bevo la Hop Sun di Southern Tier con mia grande delusione. Sarà per la prossima...
La giornata successiva impone una sortita a Brooklyn dal beershop consigliatomi dal birraio di Captain Lawrence. Il Bierkraft a Park Slope è bellissimo, mi ricorda un po' "casa" con qualche miglioria e una scala decisamente statunitense: 12 spine e 3 real ales. Non si può chiedere di più. Mi secco velocemente la Cream Ale di Newburgh per poi passare alla Spice Of Life, single hop Citra di Sixpoint. S-P-E-T-T-A-C-O-L-O!!!
Mi dicono sia la settimana della birra del Maine e senza ulteriori indugi, ci spostiamo a Hell's Kitchen da The Pony Bar, forse il meno estetico di tutti i locali visitati, ma, anche se l'occhio vuole la sua parte, gli perdoniamo il look un po' da sport bar quando vediamo 30 spine interamente consacrate al Maine. Immancabile selezione di Allagash e poi Sea Dog e Main Beer Company; un tripudio di ales acide e non, accompagnate dalla classica aragosta che ci confortano dalla pioggia che si sta abbattendo su di noi.
Ci teniamo per l'ultimo giorno quello che è (ora) considerato da tutti i newyorkesi come il migliore craft beer pub. Alewife nel Queens... Il locale è piuttosto grande, su due piani, con un bancone grosso da cui svettano 40 (leggesi quaranta) rubinetti, che però si perdono nella generosità della sala. Anche qui Allagash la fa da padrone per via della Maine Beer Week, ciò nonostante ci restano 30 vie da assaggiare. Apro le danze con la Cream Ale di Empire Brewing, genere di cui sono ormai diventato abbastanza esperto, per poi buttarmi sulla Sawtooth Ale di Left Hand e chiudere in bellezza con la Rastafa Rye Ale dal cask di Blue Point.

Faccio un appunto: nonostante la sterminata offerta di birra BUONA che è presente in ogni dove, spesso bisogna confrontarsi con una mediocrità nel servizio che, visto il prezzo medio di 7 $ per le americane e di 8 $ per le straniere, resta imperdonabile.

giovedì 25 aprile 2013

The Drinking Revolution


Che birra artigianale e musica underground condividessero lo stesso pubblico è cosa ormai certa. Innumerevoli i richiami tra mondo musicale e pianeta brassicolo, perché, in fondo, saper riconoscere una buona birra è un gesto rivoluzionario, è non accontentarsi di quello che bevono gli "altri". Citazioni sottili per Brewdog che chiama Punk la sua India Pale Ale "base" e Hardcore quella brutalmente più amara ed alcolica. Ma nel Midwest il legame tra microbirrifici e metal è davvero palese, anche se "non direi che quello è il genere/cultura a cui noi ci sentiamo più vicini, ma tuttavia c'è una tendenza" sostiene Trent Holton del piccolo birrificio Half Acre di Chicago. "Non so che dirti, se non che la birra artigianale americana e il metal condividono un sacco di ispirazioni profonde. Considerare di fare qualcosa di rumoroso, aggressivo e anticonformista ci ha mantenuto sani di mente" spiega Todd Haug, negli anni '80 chitarrista dei Powermad, la storica band di speed metal di Minneapolis, ora mastro birraio presso Surly. La loro quinta ale celebrativa, la Five, esce con un'etichetta che ricorda quelle del black metal norvegese: caprone, pentacolo e colori smorti. 3Floyds, da parte sua, rincara la dose: festeggia i suoi 15 anni di attività invitando i Melvins a suonare nel suo pub, che viene citato dagli Amon Amarth come "tappa obbligatoria" durante i tour in U.S.A. Un'etica senza compromessi quella del microbirrificio dell'Indiana che l'ha portato in cima alla classifica dei produttori, obbligandolo a lottare per soddisfare la richiesta dei suoi clienti che attualmente si limitano a soli tre stati del Nord America. Come se non bastasse, esistono poi alcune birre nate da una collaborazione tra musicisti e birrai come la The Creeper, Doppelbock brassata appositamente per i Pelican dai già citati 3Floyds o la sour ale di New Belgium per i Clutch. Anche il gruppo punk norvegese Kvelertak si adegua, autoproducendo la Kvelerbräu, perché il rock 'n' roll sarebbe più noioso senza birra...

Pubblicato originariamente su Salad Days Issue X

venerdì 24 agosto 2012

L'erba del vicino è sempre più verde...

Se una cosa non la puoi avere, la brama aumenta e non si placa finché non viene soddisfatta. Ma quando poi l'oggetto del desiderio è tra le mani, la delusione è spesso alle porte, l'idea che ci siamo prefissati è meglio della dura realtà. E' un po' questa l'impressione che mi sono fatto sulla scena brassicola svedese. Un grosso hype per via della sua (quasi) totale assenza sui nostri banconi, racconti e recensioni che ritrovo distorte o ingrandite. Con questo non voglio dire che le birre locali siano pessime o altro, ma direi lontane dall'aura di mistificazione che le avvolge.
Per me birra a Stoccolma è sinonimo di Åkkurat: un posto caldo e accogliente, con una buona selezione di bottiglie e una discreta quantità di spine. Si mangia bene, si beve meglio. Gli rimprovero la mancanza di quell'integrità che, probabilmente, non gli consentirebbe di rimanere a galla: la Stella Artois nel frigo no. Punto.
Pollice su per la vienna lager dal nome impronunciabile di Nynäshamn, preferisco dimenticare Rainbow Warrior di Närke, mappazza affumicata e piuttosto masticabile.
L'alter ego dell' Åkkurat è l'Oliver Twist, locale votato più al luppolo "stelle-e-strisce" che alle produzioni domestiche e qualche rincuorante prodotto macro per non sentirsi persi nella foresta dell'ampia offerta. Cado in tentazione e mi stappo una boccia di Ruination IPA di Stone che ha il prezzo equivalente di CK One. Poi arriva una pinta di Oppigårds Single Hop, ale floreale e dissetante a base di Styrian che mette d'accordo sete e portafogli. Proprio Oppigårds mi conquista con birre facili e precise, senza quella pretesa di stupire. Come piace a me.

Se cercate la Glenfiddich Warehouse, sappiate che ha cambiato nome in Ardbeg Embassy, ma non si è mossa di un cm: locale un po' freddo e pacchiano, che però supera la ventina di birre locali alla spina e un infinito repertorio di Whiskys. Indimenticabile il filetto di renna e il salmone, ma la buccia di banana questa volta si chiama Indianvinken Pale Ale (IPA vi suona meglio?). Più volte richiamo l'attenzione della cameriera dicendogli che ho ordinato una IPA, non quel liquido fenolico e caramelloso che mi ha consegnato, ma mi giura che è così.

La gita da Nils OscarBryggeri non porta a granché, perché la burocrazia svedese, quando si tratta di alcol, è più italica che nordica. Mi tocca comprare le loro bottiglie da Systembolaget e mettermi il cuore in pace. Niente di stupefacente anche in questo caso, ma ales e lagers oneste, che si lasciano bere. E a me questo basta...